Recensioni

Emilio Bigi, Una vita più vitale. Stile e pensiero in Leopardi, a cura di
C. Zampese, introd. di L. Blasucci, Venezia, Marsilio, 2011,
pp. vii-xx, 1-188.

 

 

Barbara Foresti

barbaraforesti@hotmail.com


 

 

Il volume si apre con due interventi incentrati su Recanati, nei quali Emilio Bigi analizza con grande equilibrio e ricca documentazione la cittadina marchigiana, illustrando come essa giochi, nell’universo leopardiano, un ruolo fondamentale, dalla prima formazione del poeta alle esperienze dell’età adulta.

In Leopardi e Recanati (pp. 3-23), il critico, concentrandosi dapprima sul contesto familiare dell’Autore, si sofferma sugli educatori di casa Leopardi, fornendo informazioni importanti sulla loro estrazione ed ideologia che risultano fondamentali per la formazione del giovane Leopardi. Le riflessioni intorno alla città di Recanati riguardano diversi nuclei di approfondimento: la fisionomia della città, classificata, ovviamente, come «città piccola» e quindi parte in causa nella riflessione zibaldoniana relativa alle differenti caratteristiche tra «città grandi» e «città piccole»; i personaggi umili del paese natale nei quali Leopardi si identifica, specialmente nella fase compositiva degli idilli della maturità; la favella recanatese considerata come naturale; e, infine, i paesaggi ispiratori di quelle «pietà», «vitalità» e «ricordanza» che sono alla base della sua poetica.

Il secondo saggio, Il mondo recanatese nei «Canti» (pp. 25-37), è, in sostanza, un approfondimento del primo. Qui il critico compie un excursus attraverso i vari componimenti, rintracciando la presenza di ispirazioni tutte recanatesi, distinguendole da altre che hanno subito, nel corso della loro genesi, influenze letterarie provenienti da altri modelli.

Il contributo riguardante la teoria del piacere (La teoria del piacere e la poetica del Leopardi, pp. 39-54) si propone sostanzialmente di individuare le basi sulle quali poggiano i tentativi del pensatore ottocentesco nel teorizzare la possibilità di realizzazione di una «vita vitale», così come definita da Sebastiano Timpanaro.

Gli inganni creati appositamente per placare l’umana «sete d’infinito» e le distrazioni dalla terribile condanna della noia sono le due categorie, destinate ad incontrarsi, da cui Bigi parte, per giungere, nel primo caso, alla «poetica dell’indefinito»; nel secondo, ad una «poetica dell’energia» dove prevalgono «vivezza» e «arditezza».

Dalla seconda, in particolare, dipende la legittimazione della «moderna poesia sentimentale e malinconica» che, da momento di respiro e sospensione dal «tedio», diventa strumento fondamentale per ravvivare l’animo nell’esprimere la propria misera condizione una volta posto di fronte al nulla, nel proclamare il proprio diritto, appunto, ad «una vita più vitale», scagliandosi, attraverso lo specifico genere poetico della lirica, contro i promulgatori di illusorie e false prospettive intorno all’umanità.

L’analisi del Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco (pp. 55-67) prende le mosse dall’apprezzamento in tono minore della critica verso altri luoghi leopardiani riguardanti la tematica materialistica (primo fra tutti l’Islandese). Qui il critico riconosce il diverso approccio dell’Autore nei confronti della sua composizione nella quale un tema grave e complesso come quello della continua genesi e distruzione della materia è rivissuto in una dimensione fantastica, che ripropone le numerose teorie filosofico-scientifiche ad esso sottese in modo equilibrato, presentandole in un risultato compositivo nel quale né l’ambito filosofico, né quello della fantasia creativa prendono il sopravvento.

Un autobiografismo strettamente connesso a specifici contenuti dell’ideologia leopardiana è il nucleo centrale del quinto saggio, proposto nel volume, Autobiografia e poesia nelle «Ricordanze» (pp. 69-81): lo studioso intraprende la propria indagine partendo dal concetto di «ricordanza» interno alla «teoria del piacere». Per la forte presenza di tale tematica in A Silvia, la seconda parte del saggio è completamente dedicata al confronto tra la «ricordanza» e il canto in oggetto.

Nell’analisi della Ginestra (pp. 83-94) Bigi giunge a definire i tratti di quell’«etica della verità» nella quale sono racchiuse e consapevolmente compiute le riflessioni ideologiche del canto, di cui il critico esalta, attraverso uno studio che non tralascia nessuno degli ambiti che lo caratterizzano (piano formale, lessicale, retorico, sintattico, metrico e articolazione tematica), l’equilibrio col quale Leopardi gestisce in modo estremamente coerente l’esposizione della propria verità attraverso un particolare registro espressivo, frutto di una costante «tensione [...] fra il registro tonale energico ed espressionistico e quello austeramente e solennemente elevato».

Nel capitolo più corposo riguardante La metrica dei «Canti» (pp. 95-144), Bigi offre un altissimo esempio di metodo critico, a partire dalla dichiarazione introduttiva nella quale dice di individuare la ragione della mancanza di una «trattazione sistematica» della tematica metrica nello strettissimo legame «fra i procedimenti fonico-ritmici e la qualità della poesia in cui essi operano», legame tanto intricato da aver distolto gli studiosi ad individuarne le linee principali. Il critico giudica, invece, questo rapporto un imprescindibile punto di partenza e argomento di indiscutibile fondamento per la comprensione dei procedimenti operanti all’interno dell’officina creativa leopardiana.

Prendendo le mosse dai componimenti puerili e adolescenziali Bigi ripercorre le stagioni dei Canti, senza trascurare nessuno degli elementi che li compongono, dalle strutture metriche più pedissequamente seguite dal Leopardi, alle scelte fonico-ritmiche, non meno che lessicali, indagando in ciascun contesto le ragioni che vedono spesso le stesse strutture offrire esiti ben differenti fra loro.

La genialità di tale analisi consiste nella capacità del critico di individuare nel sublime esito finale dei versi leopardiani quell’armonia che il poeta ottiene dal magistrale utilizzo degli strumenti compositivi del metro, dall’ineguagliabile padronanza creativa, dall’abile gestione di stati d’animo, nuclei ideologico-filosofici, contesti e tematiche.

Il saggio intitolato Motti, facezie, paradossi del Leopardi resta uno degli esempi più esaustivi finora scritti intorno al ‘riso’ leopardiano. Il ricco materiale riguardante l’argomento non era mai stato adeguatamente analizzato e Bigi ripercorre le linee guida della consistente documentazione prendendo le mosse dalle principali caratteristiche dei generi del paradosso e dell’arguzia contestualizzandoli nei vari casi di teorizzazione e produzione leopardiana.

Da tre voci degli indici zibaldoniani (Motti, facezie varie ec. ec. e Paradossi – dell’Indice del mio Zibaldone di Pensieri del ’27 – e Motti e risposte argute – del secondo, «indice parziale» del ’24) e dalla distinzione, sempre zibaldoniana, tra il «ridicolo di cose» e il «ridicolo di parole», lo studioso intraprende l’analisi dei vari esempi riguardanti il genere satirico della produzione leopardiana. Egli traccia un quadro che nel complesso ci offre l’immagine di un Leopardi fruitore e artista del genere, dimostrando ancora una volta quanto sia arduo il tentativo di categorizzare e rinchiudere entro confini assoluti e definitivi le creazioni dell’Autore recanatese, sempre originale e mai impermeabile agli stimoli esterni che indirizzino a sperimentazioni creative nuove, vengano essi dall’ambito familiare o dai propri studi.

L’analisi del rapporto fra Montani e Leopardi, oggetto dell’ultimo saggio presente nel volume (pp. 165-180), prende le mosse dalle differenze ideologiche che caratterizzano i due personaggi; l’uno fiducioso nella perfettibilità del genere umano; l’altro consapevole della corruzione proveniente dal suo tendere verso di essa.

Il recensore Montani, tuttavia, mostra fin dai giudizi sulle prime canzoni un apprezzamento ed una comprensione delle opere leopardiane che oltrepassano le divergenze ideologiche, soffermandosi sulla «forza» che le caratterizza e che non manca anche nelle Operette morali: l’ardore patriottico alla cui base restano i valori di una libertà da riconquistare, la particolare natura del riso leopardiano (figlio della disperazione e, nello specifico, l’analisi della «malinconia»), il giudizio sulla «evoluzione stilistica dei Canti» costituiscono un chiaro esempio di quanto il valore dell’opera del poeta sia in grado di suscitare apprezzamento anche in un recensore che, come Montani, abbraccia ben altre convinzioni.

Emilio Bigi si accosta al proprio Autore con un approccio metodologico di grande valore, e, al tempo stesso, con l’atteggiamento di chi non esclude mai esiti e scelte di chi l’ha preceduto, anche laddove ne prende le distanze, dimostrando costante fiducia, comprensione e rispetto per il lavoro di ricerca altrui e rendendolo costruttiva condivisione e attento confronto.