Recensioni

Gaspare Polizzi, Giacomo Leopardi: la concezione dell’umano, tra utopia e disincanto, Milano, Mimesis, 2011, pp. 226.

 

 

Alessandra Aloisi

alessandraaloisi@yahoo.it


 

 

Il libro di Gaspare Polizzi si propone di ricostruire la genesi dell’«antropologia negativa» di Leopardi, che troverà compiuta espressione nelle Operette morali del 1824. Se non proprio in senso tecnico (visto che la disciplina stava cominciando a costituirsi proprio alla fine del Settecento), il termine ‘antropologia’ può comunque essere inteso rispetto a Leopardi in senso propriamente filosofico, cioè come spazio di riflessione sulla natura umana che si definisce a partire dallo studio e dal confronto con le culture di altri popoli, antichi, primitivi o selvaggi. Quella leopardiana si caratterizza tuttavia per essere un’antropologia ‘negativa’, perché una delle conclusioni principali a cui arriva riguarda l’imperfezione e l’infelicità necessaria di tutti gli uomini, in ogni tempo e in ogni luogo.

Due movimenti concorrono al consolidarsi di questa visione disincantata, in cui l’infelicità e l’imperfezione, da condizioni storiche tipiche dell’uomo moderno, diventano condizioni sovrastoriche e strutturali, costitutive della natura umana: da una parte, l’abbandono di ogni prospettiva utopica rispetto ai selvaggi del ‘Nuovo mondo’, in cui Leopardi aveva sperato di cogliere l’ultima traccia nel presente di una vita ancora prossima alla natura e pertanto felice; dall’altra, lo sfaldarsi del mito della felicità degli antichi, di quell’ideale di un’esemplarità greco-latina coltivato fin dagli studi infantili. Guerra e antropofagia da un lato, suicidio dall’altro saranno per Leopardi i sintomi inequivocabili in cui leggere la barbarie dei selvaggi e l’infelicità degli antichi. Riservando un’attenzione particolare al rapporto con le fonti, i primi due capitoli del libro («L’utopia: l’Inno ai Patriarchi e il mito dei Californi», pp. 11-60; «Barthélemy e Plutarco: una nuova immagine della Grecia, ovvero la scoperta del “meglio non esser nati”», pp. 61-142) ripercorrono da vicino questi due movimenti, mentre il terzo e ultimo capitolo è dedicato all’analisi di quella che, tra le Operette morali del ’24, meglio sembra compendiare, da un punto di vista socio-antropologico, la concezione leopardiana dell’uomo: la Scommessa di Prometeo.

L’antropologia di Leopardi si muove quindi tra i due poli opposti dell’«utopia» e del «disincanto», secondo uno slittamento progressivo efficacemente fotografato da Polizzi entro l’arco di tempo ben circoscritto che va dal 1822, anno della composizione dell’Inno ai Patriarchi (in cui si registra l’ultimo significativo reperto del mito dei Californiani), al 1824. Uno spartiacque decisivo è rappresentato, naturalmente, dal primo soggiorno romano, tra il novembre del ’22 e il maggio del ’23, quando la lettura congiunta del Voyage du jeune Anacharsis en Grèce di Bathélemy e degli Opuscoli morali di Plutarco produce un cortocircuito decisivo per la dissoluzione del mito dei greci ingenui e felici. Partendo dagli studi critici di Porena, Pacella, Timpanaro, Besomi e Binni, e attraverso l’analisi serrata di alcune pagine dello Zibaldone, Polizzi ci propone, a questo riguardo, uno studio ravvicinato del rapporto tra le letture romane e la svolta nella visione antropologica leopardiana.

Non è facile stabilire in maniera univoca quale sia, nel pensiero leopardiano, il legame strutturale tra la caduta dei due miti, quello del selvaggio e quello dell’antico, puntellati entrambi in ultima analisi sull’opposizione fondamentale tra natura e ragione. È tuttavia sintomatico il fatto che, già a partire dalla fine del ’21 (dunque prima ancora che l’ideale degli antichi si dissolvesse definitivamente), l’immagine della vita felice e vigorosa dei selvaggi avesse cominciato a mostrare nello Zibaldone segni di cedimento. Nell’ultima strofa dell’Inno ai Patriarchi si ha in effetti l’impressione che il mito dei Californi sopravviva solo come il residuo di una concezione ormai abbandonata: una concezione, tuttavia, che Leopardi si sforza ancora di difendere, anche a costo di praticare un’alterazione sistematica delle sue fonti sulla vita dei selvaggi, da cui espunge gli aspetti negativi (ad esempio la guerra) o, dove possibile, li valorizza come positivi. Come osserva giustamente Polizzi, appoggiandosi ai lavori di Sozzi e di Balzano, la torsione delle fonti documentarie si rivela funzionale alla «presentazione immaginaria di un popolo inesistente, racchiuso nel mondo del poeta come ultima utopia dinanzi alla decadenza umana della società moderna» (pp. 53-54). All’origine di questa mitopoiesi, che trova nell’Inno ai Patriarchi il suo momento più alto, ci sarebbe quindi l’ideale di un’umanità felice e secondo natura a cui Leopardi non ha ancora completamente rinunciato e che intende opporre polemicamente alla degenerazione prodotta dalla ragione e dalla civiltà. Questo ideale è lo stesso che, per altri versi, sostiene e alimenta anche una certa immagine della grecità, ed è significativo il fatto che, venuti meno il mito degli antichi e quello dei selvaggi, tale ideale di una vita felice – piena, vigorosa e priva di noia – finisca per rifugiarsi nella dimensione dell’animalità, cioè in un prima che è fuori dalla storia umana.

Non sarà allora un caso se, dopo l’Elogio degli uccelli, proprio la Scommessa di Prometeo sia l’operetta con il maggior numero di riferimenti all’animale, contraltare positivo di volta in volta opposto alle varie manifestazioni della barbarie umana. L’ultimo capitolo del libro («Il disincanto: La scommessa di Prometeo», pp. 143-206), dedicato appunto allo studio di questa operetta, sembra offrire gli spunti più interessanti da un punto di vista filosofico e, insieme, antropologico. Prima di soffermarsi sull’analisi del testo, del suo rapporto con le fonti e della sua funzione all’interno della raccolta, Polizzi ci ricorda innanzitutto come La scommessa di Prometeo possa essere considerata il momento culminante di un lungo processo (iniziato con Luciano e proseguito in età rinascimentale con Leon Battista Alberti e Giordano Bruno) di consapevole ribaltamento in chiave anti-umanistica e anti-antropocentrica del mito e della figura di Prometeo. Più che «il Prometeo della tecnica e del dislivello tra l’umano e il tecnologico», quello messo in scena da Leopardi è piuttosto «un Prometeo responsabile della creazione stessa dell’umano» (p. 205). Dietro quella che a tutta prima sembrerebbe una semplice opzione narrativa, si profila in realtà una precisa affermazione antropologica: l’uomo propriamente detto, l’uomo in quanto distinto dall’animale, nasce di fatto con la scoperta del fuoco; come dire che nella storia umana non c’è un prima che precede l’ingresso nella civiltà. Ecco allora, nel quadro di questa ridefinizione dell’umano, che le tre tappe del viaggio di Momo e di Prometeo possono essere lette come tre diversi esempi (tutti e tre legati non a caso all’uso del fuoco) dell’imperfezione costitutiva della specie umana, verificata in contesti sociali e geografici apparentemente molto lontani tra loro. Sembra tuttavia che per il definitivo consolidarsi dell’«antropologia negativa» oggetto del libro le tappe più importanti siano di fatto la prima e l’ultima: la prima, perché testimonia dell’avvenuta separazione tra la figura del selvaggio e quella del primitivo o, più precisamente, dell’abbandono dell’idea che possano esistere uomini ‘naturali’ (anche il selvaggio, dedito all’antropofagia e alla guerra, presenta infatti tutti i segni della barbarie); l’ultima, perché l’episodio del londinese che per tedio della vita uccide se stesso e i propri figli sembra vanificare ogni speranza di perfettibilità della specie umana, cancellando il discrimine stesso tra civiltà e barbarie.

La prospettiva politica e sociale che, in questa fase del pensiero leopardiano, emerge da una simile visione dell’umano non può che risultare – è questa la conclusione di Polizzi – ancora ben lontana dalla «social catena» della Ginestra. Questa conclusione, che appare lampante se si guarda alla Scommessa, risulterebbe forse lievemente smussata se, accanto a quest’ultima operetta, si considerasse anche la Storia del genere umano. Mi sembra infatti che nella definizione dell’«antropologia negativa» leopardiana un ruolo determinante spetti proprio alla prima delle Operette morali. Se Polizzi non vi dedica molto spazio è probabilmente per via del riferimento in essa contenuto al mito dei Californiani, che lascerebbe sospettare, nella visione antropologica qui espressa, la permanenza di elementi utopici destinati a scomparire nella Scommessa di Prometeo. Tuttavia, al di là di questo riferimento (in realtà, per ammissione dello stesso Polizzi, del tutto secondario e marginale), mi sembra che nel connotare come negativa la visione leopardiana dell’uomo non si possa prescindere dal ruolo distintivo, peculiare rappresentato dalla Storia del genere umano. Mentre l’«antropologia negativa» che emerge dalla Scommessa si limita a denunciare l’imperfezione strutturale della natura umana, la Storia del genere umano pone invece al centro il problema dell’infelicità, aggiungendo una precisazione decisiva: «s’ingannano a ogni modo coloro i quali stimano essere nata primieramente l’infelicità umana dall’iniquità e dalle cose commesse contro agli Dei; ma per lo contrario non d’altronde ebbe principio la malvagità degli uomini che dalle loro calamità».[1] Se dunque anche la Storia del genere umano esprime, per così dire, una visione antropologica negativa, dal momento che afferma senza riserve l’infelicità necessaria di tutti gli uomini, essa tuttavia, a differenza della Scommessa, esclude esplicitamente l’ipotesi che l’uomo sia cattivo o malvagio per natura. Forse, proprio perché riconosce chiaramente che il problema dell’uomo non è la cattiveria ma l’infelicità, e che in questo solo consiste l’imperfezione, la Storia del genere umano può rivelarsi meno distante, rispetto alla Scommessa, da quell’idea di amore e di «social catena» che verrà espressa nella Ginestra.



[1] Leopardi, G., Tutte le poesie e tutte le prose , L. Felici e E. Trevi (a cura di). Roma, Newton Compton, 2007 (1a ed. 1997), pp. 494-95.