Recensioni

Giuseppe Antonio Camerino, Lo scrittoio di Leopardi. Processi compositivi e formazione di tópoi, Napoli, Liguori, 2011, pp. 188.

 

 

Melinda Palombi

AIX-MARSEILLE UNIVERSITÉ

melinda.palombi@gmail.com


 

 

Dopo il saggio Le forme del diletto. Aspetti e fenomeni naturali nella percezione di Leopardi, seguito da L’invenzione poetica in Leopardi. Percorsi e forme e da Gusto e metodo della poesia nello ‘Zibaldone’, Camerino ci propone un nuovo studio dell’arte poetica leopardiana, composto per lo più di testi inediti, ad eccezione dei capitoli III,[1] V,[2] XI,[3] e dell’Appendice.[4] Intorno ad una parola chiave, il sublime, che costituirà il filo rosso dell’intero volume, l’autore analizzerà momenti scelti dell’elaborazione dello stile leopardiano secondo una prospettiva ben definita: quella dell’apparire e dello svilupparsi dei topoi più significativi. In queste dinamiche creative, Camerino metterà in evidenza il ruolo fondamentale dell’intertestualità esterna – ovvero l’influenza delle eventuali fonti – ma anche il delinearsi, in parallelo, di un’intertestualità interna – tra i testi dello stesso corpus leopardiano.

Il primo degli undici capitoli getta le basi di questo studio meticoloso, seguendo una forma di esposizione che caratterizzerà l’intero volume. Camerino procede con metodo rigorosissimo, quasi scientifico. Molto schematicamente se ne delineano le fasi: individuazione della presenza di un topos letterario in un testo leopardiano (per esempio, il motivo della ‘tempesta’); analisi dell’esempio citato; ricerca dell’intertestualità interna all’opera di Leopardi riguardo a tale topos, generalmente abbinata alla ricerca di un’influenza intertestuale esterna. Per ogni tematica affrontata, l’autore esplora le diverse possibili influenze in modo limpido e conciso, facendo tesoro delle osservazioni di altri critici per svilupparle, o infirmarle.

Camerino insegue così i topoi leopardiani, guidandoci in modo logico da un motivo all’altro. Così, se non è lineare – poiché si addentra nelle peculiarità di ogni topos studiato – la sua esposizione scorre tuttavia ininterrotta, continua, come un percorso all’interno del corpus dei testi leopardiani, che ci conduce da un lemma ad un altro, sempre concatenato al precedente in modo perfettamente razionale. La bravura dello studioso risiede appunto nel guidarci lungo questo percorso complesso e zigzagante, con una coerenza che fa di ogni passaggio, di ogni transizione, un’evidenza.

Trattandosi dell’analisi dell’intero percorso leopardiano, Camerino prende in esame le prove poetiche del giovane Giacomo sin dagli esordi; più precisamente, sceglie di prendere le mosse dal tema delle ‘metamorfosi del paesaggio’, per rimbalzare poi, di volta in volta, da un topos ad un altro, ricercando puntigliosamente in quale misura le immagini leopardiane possano costituire echi di scritti precedenti e in quale misura riecheggino nello stesso corpus di Leopardi.

L’autore sviluppa questo studio delle fonti in modo metodico e completo, citando accuratamente riprese celeberrime così come riscontri inediti, scovando le immagini, le idee di Leopardi sul nascere e svelandoci i testi che le hanno ispirate, agli albori del processo creativo. Ritroviamo così, tra le numerosissime fonti analizzate, testi dell’antichità – il trattato pseudolonginiano Del Sublime, opere di Virgilio, Omero, Orazio, Pindaro, Saffo, Mosco, ecc. –, e testi moderni – di Petrarca, Alfieri, Castiglione, ecc.; in particolare, viene messa in luce l’influenza determinante di alcuni testi stranieri su alcune scelte stilistiche e lessicali, considerando queste opere nella loro versione italiana, ovvero quella effettivamente consultata dall’autore recanatese. Tra queste opere, tre traduzioni occupano un posto di rilievo, come dimostrano i numerosissimi riscontri citati ed esaminati da Camerino: le Lectures on Rhetoric and Belles Lettres di Hugh Blair, tradotte da Francesco Soave in un’edizione del 1803;[5] A Philosophical Enquiry into the Origin of Our Ideas of the Sublime and Beautiful (1757) di Edmund Burke, nella traduzione di Carlo Ercolani pubblicata nel 1804;[6] il Werther di Goethe nella traduzione di Michiel Salom, pubblicata nel 1796.[7]

Nel capitolo secondo, Camerino analizza più specificatamente il ruolo ispiratore del Werther nelle sperimentazioni stilistiche leopardiane e, in particolare, nelle ricerche intorno al genere elegiaco, non senza dimenticare influenze più note come quelle di Petrarca e Ossian. In questo capitolo ritroviamo uno dei tratti caratteristici dell’intero saggio, ovvero il continuo intrecciarsi, nella ricerca di segni di influenze esterne sui testi di Leopardi, di considerazioni puramente stilistiche – che prendono spunto anche dalla riflessione teorica leopardiana (Zibaldone, Argomenti di elegia, ecc.) – con riferimenti prettamente lessicali. Quest’analisi accuratamente documentata – come del resto l’intero saggio – dimostrerà secondo quali meccanismi il topos del ‘piacere dei pericoli che crea il temporale’, fondamentale nell’immaginario leopardiano, si sia in parte ispirato all’‘orrenda delizia’ del Werther italiano.

Il capitolo terzo prosegue nel tentativo di mettere a nudo la concezione leopardiana del sublime tentando di determinare gli elementi che lo compongono per Leopardi. Evocherà l’importanza dalla naturalezza, della semplicità, nel rappresentare la Natura, ma metterà in risalto anche un’altra faccia del sublime leopardiano con i motivi eroici e patriottici.

Il capitolo quarto prosegue l’analisi del rapporto leopardiano al sublime in modo tematico, concentrandosi sulla categoria del vasto, dell’illimitato e sulle occorrenze di alcuni topoi ben precisi. Camerino concluderà evocando la ricerca di un’espressione stilistica dell’infinito e della vastità, mettendo ancora una volta in evidenza lo stretto nesso tra rappresentazione poetica ed aspetti tematici e semantici. 

Un lemma evocato nel capitolo quarto costituirà il ponte verso il capitolo seguente: lo spavento. Camerino tenta di definire la particolarissima accezione leopardiana di spavento analizzando le varie occorrenze del sostantivo, con l’aiuto sempre illuminante delle riflessioni zibaldoniane. In un secondo tempo, ci presenta uno studio sistematico delle occorrenze di accezioni affini come quella di sbigottimento – suggerita dall’uso ricorrente dell’aggettivo sbigottito –, di paura – che ritroviamo anche nel verbo spaurarsi – di orrore o ancora di angoscia. Così, appare manifesta l’esistenza in Leopardi di un vero e proprio sistema semantico dello spavento a servizio dell’arte poetica, un sistemanel quale «si coglie la percezione di un diletto poetico inteso da Leopardi come sublime» (p. 83).

Secondo lo studioso, le ricerche leopardiane intorno al tema dell’infinito, evocate nel capitolo quarto, subiranno tra il 1819 e il 1820 l’influsso della «constatazione del nulla, del dolore e dell’infelicità» e della conseguente «necessità di supplirvi con l’immaginazione e le illusioni» (p. 91). Il capitolo sesto è pertanto dedicato a topoi inerenti a queste tematiche: il sogno, la quiete e il silenzio, il loro interagire con il tema dell’infinito, ma anche il fondamentale tema della solitudine e del sospirar. Gradualmente, Camerino ci dimostra non solo l’esistenza di vari sistemi topici in Leopardi, ma anche la complessità dei loro rapporti.

Riassumerò brevemente, evocando i temi trattati, i capitoli seguenti, che corrispondono in realtà ad ampie analisi. Il capitolo VII è dedicato al rapporto dicotomico tra due campi semantici, quello dell’apparire e quello dell’essere, mentre il capitolo VIII esamina le occorrenze dell’aggettivo acerbo e il topos degli oggetti doppi, nonché i topoi  che vi sono legati.

Il capitolo IX si concentra su alcuni motivi topici della Ginestra e del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, presentando questi testi come momenti di sintesi dei processi compositivi leopardiani.

Nel capitolo X Camerino dimostra le notevoli influenze petrarchesche nei canti fiorentini, per interessarsi poi, nell’ultimo capitolo, ad uno studio comparato dei temi di memoria ed infanzia in Alfieri e Leopardi.

Così, capitolo dopo capitolo, lo studio delle fonti ispiratrici di Leopardi si abbina alla ricerca di un’intertestualità interna, rilevando per ogni topos evocato i molteplici, variegati riscontri all’interno dei testi leopardiani. Assistiamo ad una vera e propria ricostruzione del pensiero leopardiano in atto, seguendo alcuni motivi dalla nascita, anzi, da ciò che ha potuto generarli, fin nelle loro rielaborazioni successive. Insomma, vediamo come Leopardi, nell’inseguire senza sosta i suoi ideali poetici, proceda; scopriamo attraverso quali tappe egli rielabora ripetutamente alcuni topoi classici e se ne appropria. L’importanza dello studio di Camerino sta quindi nel mettere in luce, in modo completo e sintetico allo stesso tempo, il lavoro di riscrittura messo in opera da Leopardi – riscrittura di motivi altrui, di motivi classici, ma anche di luoghi poetici propri. Ma non è tutto. Risiede anche nello svelarci, nel contempo, il modo in cui l’autore sia riuscito ad elaborare un vero e proprio sistema di topoi:

 

Attraverso questo esercizio, provando e riprovando, incontentabile come ogni autentico artista, egli ha fissato pian piano uno straordinario sistema semantico di parole-chiave e di stilemi inconfondibilmente suoi (p. 79).

 

E infatti queste

 

corrispondenze […] dimostrano come il poeta procedesse nel suo lavoro rielaborando anche in contesti nuovi elementi topici e semantici derivanti da contesti diversi, i quali vengono ad articolarsi tra loro in modo complementare (p. 98).

 

A mio avviso, l’abilità di Camerino consiste nell’offrire, attraverso la struttura del lavoro, una rappresentazione della gradualità e della coerenza dell’elaborazione di questo sistema, proponendoci così un’altra visione dell’intero corpus leopardiano. Occorre ammettere che, talvolta, sarebbe stata apprezzabile un’analisi più approfondita dei riscontri evocati; si sente in alcuni casi la mancanza di una vera e propria interpretazione ermeneutica che prenda spunto dalla ricorrenza di tale o tale topos. Ma sarà dovuto, per certo, ad una volontà di concisione, per un testo a tratti notevolmente denso che non si sviluppa in un discorso lineare e fluido, bensì attraverso un’imponente serie di citazioni ed esempi sapientemente ordinati e concatenati al fine di dimostrare la tesi dell’autore. Pertanto, Lo scrittoio di Leopardi può essere considerato come una base di studio che apre prospettive appassionanti nel campo degli studi leopardiani. Questo lavoro, appoggiandosi sulla tradizione critica leopardiana, riesce a proporre nuovi approcci. Costituirà uno strumento di lavoro particolarmente utile nell’ambito dell’intertestualità – o piuttosto delle intertestualità – in Leopardi, argomento al centro del recente Convegno di Barcellona su «Lo ‘Zibaldone’ di Leopardi come ipertesto».



[1] “Quell’affetto nella lirica che cagiona l’eloquenza”. Un’idea di stile sublime», in C. Griggio e R. Rabboni (a cura di), Lo studio, i libri e le dolcezze domestiche. In memoria di Clemente Mazzotta (pp. 399-419). Verona, Edizioni Fiorini, 2010.

[2] «Spavento, spaura, si spaura», Giornale storico della letteratura italiana (CLXXXV) 611, 2008:  444-53.

[3] «Consumare la vita. Noia e non-vivere da Alfieri a Leopardi», Giornale storico della letteratura italiana (CLXXX) 590, 2003: 191-205; e in M. Dondero e L. Melosi (a cura di), S. Costa (premessa di), Memoria e infanzia tra Alfieri e Leopardi, Atti del X Convegno Internazionale di studi, Macerata, 10-12 ottobre 2002 (pp. 75-88). Macerata, Quodlibet, 2004.

[4] In Lo Zibaldone cento anni dopo. Composizione, edizioni, temi, Atti del X Convegno Internazionale di studi leopardiani, Recanati-Porto Recanati, 14-19 settembre 1998 (I, pp. 59-74). Firenze, Olschki, 2001, 2 voll.

[5] Lezioni di retorica e belle lettere di Ugone Blair, Professore di Retorica e belle lettere nell’Univ. Di Edimburgo. Tradotte dall’inglese e comentate da Francesco Soave. Venezia, per Tommaso Bettinelli, 1803.

[6] Ricerca filosofica sull’origine delle nostre idee del Sublime e del Bello, con un discorso preliminare intorno al gusto di Edmondo Burke tradotta dall’inglese da Carlo Ercolani canonico della cattedrale di Macerata. Macerata, presso Bartolomeo Capitani, 1804.

[7] Verter. Opera originale tedesca del celebre Signor Goethe trasportata in Italiano dal D.[ottor] M.[ichiel] S.[alom]. Venezia, 1796.