Recensioni

Paolina Leopardi, Lettere ad Anna e Marianna Brighenti. 1829-1865, Fermo, Andrea Livi, 2012, pp. 376.

 

 

Cesare Mario Trevigne

fiorentino23@hotmail.com


 

 

È senza dubbio un’ottima notizia per i leopardisti, gli studiosi di letteratura e gli amanti di rarità leopardiane poter finalmente leggere, nella sua integrità, questo considerevole nucleo di lettere di Paolina Leopardi alle sorelle Marianna ed Anna Brighenti. L’epistolario, che va dal 1829 al 1865, conta ben 169 lettere, 111 delle quali furono già pubblicate nel lontano 1887 da Emilio Costa, per i tipi di Luigi Battei, libraio-editore di Parma. Ad esse Floriano Grimaldi, che in questa edizione moderna firma l’introduzione, la trascrizione e le annotazioni storiche, aggiunge una cinquantina di lettere, rimaste fino ad oggi inedite, che vanno a completare il numero di quelle scritte da Paolina. Completa l’epistolario l’unica missiva scampata a quel fuoco al quale la contessa stessa, per ragioni a noi ignote, condannò tutte quelle ricevute dalle due sorelle, di mano di Anna Brighenti, datata 16 dicembre 1831 e tuttora conservata a Palazzo Leopardi, senz’altro meritevole di essere conosciuta e per i contenuti e per il piacevolissimo stile.

Il volume si apre con un lungo capitolo dedicato (e non poteva essere altrimenti) a Paolina Leopardi: Rapporti di Paolina Leopardi con i genitori Monaldo e Adelaide Antici; Paolina Leopardi e i moti liberali del 1831; Elezione di Pio IX; Marianna Brighenti nella Marca; Paolina e il fratello Giacomo; Proposte di matrimonio per Paolina Leopardi; Paolina a capo dell’amministrazione di Casa Leopardi (pp. 5-59): tutti argomenti che la contessa tratterà a più riprese nelle sue missive. Segue un secondo capitolo ove Grimaldi analizza più da vicino il rapporto epistolare intercorso fra le tre donne e dove fornisce i criteri per la pubblicazione delle lettere (pp. 61-69); conclude questa sezione un terzo capitolo (pp. 71-77) che comprende una serie assai interessante di documenti, tra i quali ricordiamo gli atti di nascita e di morte di Paolina Leopardi e il suo testamento. Seguono così le 170 lettere, in ordine cronologico, corredate ognuna da un breve riassunto introduttivo sugli argomenti trattati e da informazioni inerenti al numero di pagine, le misure dei fogli ed eventuali precedenti edizioni nelle quali si possono leggere. Un contributo importante per inquadrare la figura di Marianna Brighenti, soprano drammatico di agilità dalla carriera breve, ma intensa, lo offre Paola Ciarlantini con le sue ricerche nel capitolo successivo (pp. 329-344); seguono poi un repertorio di nomi di persona e l’indice. Completano il volume alcune schede, della lunghezza media di una pagina, che tracciano brevemente la biografia delle personalità che danno vita al carteggio (le tre dame, ma anche il padre delle due sorelle, Pietro Brighenti, personaggio di una certa rilevanza anche nella vita di Giacomo Leopardi) e gli ambienti che si trova a frequentare la contessa, Recanati e la biblioteca del palazzo avito ed una serie di immagini tra le quali meritano di essere ricordati il ritratto di Marianna Brighenti e le riproduzioni fotografiche di alcune lettere, in particolar modo quella che apre il carteggio nel 1829 e quella che lo chiude nel 1866.

Se il rapporto tra Paolina Leopardi e Marianna Brighenti nacque in modo quanto mai occasionale (Paolina, su richiesta del fratello Giacomo afflitto da problemi di vista, scrive a suo nome ai Brighenti il 21 ottobre 1829 per avere loro notizie), l’amicizia che fiorì tra le due donne, estesasi fin da subito anche alla sorella di Marianna, fu affettuosa ed intensa da entrambe le parti fino almeno agli anni Cinquanta, per poi diradarsi progressivamente sino al 10 agosto 1866, data dell’ultima lettera, o per meglio dire biglietto, piuttosto formale, che accompagna un dono di cento franchi per le due sorelle ormai anziane, sole e povere. Viene spontaneo chiedersi perché dopo questa data non si abbiano più lettere (per quanto ne sappiamo); perché questo carteggio si concluda ben prima della morte di Paolina Leopardi (13 marzo 1869), la prima delle tre a mancare. Probabilmente Paolina non ha mai vissuto anni così frenetici, intensi e pieni di occupazioni come quelli seguenti la morte della madre, la marchesa Adelaide Antici, avvenuta nel 1857. Già da tempo malata, la marchesa deve avvalersi dell’aiuto della figlia, l’unica sopravvissuta e rimasta a vivere a palazzo, per sbrigare le gravose incombenze dell’amministrazione dei beni dei Leopardi. Tutto ricadrà sulle sue spalle alla morte della madre, ma Paolina non è intenzionata a vivere ancora in quel clima di fiera austerità e di reclusione in cui le è toccato vivere per quasi tutta la vita: a cinquantasette anni, capo della famiglia Leopardi, sola, senza marito, ella diviene finalmente padrona della sua esistenza e spende (come darle torto?). Acquista un cane, Lovely, restaura la sua austera dimora e l’abbellisce con mobili e suppellettili alla moda, rinnova completamente il guardaroba con stoffe sgargianti, nastrini, cappellini di ogni foggia; la vecchia-nuova Paolina si agghinda come una ragazza da marito, antesignana delle sorelle Materassi o della pirandelliana vecchia signora che veste sgargiante come un pappagallo. Ma, quel che più importa, è che adesso Paolina può fare quello che ha desiderato per tutta una vita: viaggiare. Chiude il palazzo, divenuto ormai il mausoleo della famiglia e parte, parte a sessantaquattro anni alla scoperta del mondo. Abbandonato, con sommo piacere, l’odioso carcere di Recanati, non vedrà le «ghiacciaie della Svizzera» o l’«aurora boreale e Pietroburgo», è vero, ma qualche soddisfazione se la leverà. Conoscerà finalmente di persona le due sorelle, visiterà tante città tra le quali Napoli, Bari, Parma, Modena, Reggio Emilia. L’inverno del 1868 lo trascorrerà a Pisa, ma una gita a Firenze le sarà fatale. Ammalatasi, tornerà a Pisa, ma sarà troppo tardi. La città che Giacomo ha tanto amata assisterà alla sua morte, ma ella muore, come suo fratello maggiore, libera e lontana dall’aborrito «canile» ove la sorte l’aveva fatta nascere il 5 ottobre del 1800. Paolina non avrebbe avuto più, dunque, tempo di scrivere alle due sorelle date le numerose incombenze alle quali deve far fronte; motivazione plausibile, ma non soddisfacente, soprattutto se si tien conto che a Palazzo Leopardi sono conservate molte lettere di quel periodo scritte o ricevute dalla contessa dalle quali si comprende che anche in quegli anni ella tiene regolare corrispondenza con gli esterni; la vera ragione della conclusione di quel carteggio, dunque, andrà ricercata altrove e forse nella psicologia (ben lungi dall’essere ancora stata studiata con puntualità) di Paolina Leopardi. Non ci sembra un azzardo sostenere che, per una Paolina nel fiore della gioventù, ancora in attesa di un marito capace di amarla e di farla sognare, colta, intelligente, vogliosa anch’essa di gettare lo sguardo oltre la siepe di Palazzo Leopardi, Marianna Brighenti sia stata un autentico modello di vita, di quella vita che lei sognava e che sapeva non avrebbe potuto mai realizzare. Paolina, non avvenente, era costretta a vivere reclusa in un austero palazzo ai margini di un paese oscuro ai più, senza amici e senza libertà di movimento, abbandonata anche da quei due fratelli, Giacomo e Carlo Orazio, con i quali aveva condiviso ogni giorno della sua infanzia e della sua prima giovinezza, ma che, col tempo, avevano saputo guadagnarsi la libertà; Marianna Brighenti, al contrario, era bella, ricca, affascinante, lusingata dagli uomini, applaudita nei teatri e nei giornali teatrali grazie a quella professione di cantante che la portava a cingersi di alloro in ogni angolo d’Italia, a conoscere luoghi, città e persone, ad essere desiderata come artista e come donna. Su di lei Paolina costruisce il proprio alter ego; Marianna è il perfetto prototipo di donna libera e moderna che la contessa avrebbe voluto essere, il sogno di una vita senza catene e senza impedimenti che Paolina potrà assaporare, ma soltanto in tarda età, quando la morte, invocata invano per tanti anni, si sta veramente appressando. Se si dovesse scegliere soltanto una parola per riassumere tutto questo carteggio, nessuna sarebbe più appropriata di invidia. Paolina usa moltissime volte questo vocabolo, ammette candidamente di invidiare quell’amica che gira il mondo acclamata dalle folle, ma quando essa si ritira dalle scene per andare incontro ad una vita di solitudine e di stenti ecco che l’incantesimo si rompe, ecco che Marianna Brighenti non è più un mito, un nume tutelare che per anni ed anni ha prepotentemente ammaliato la solitaria contessa; Marianna Brighenti è una donna come le altre, non è più in grado di affascinare la fervida fantasia di Paolina e forse questa prova anche fastidio a sapere che l’idolo della sua giovinezza sta invecchiando in solitudine e in povertà, tanto fastidio da procurare in lei un raffreddamento e, forse, il desiderio di cancellare nel fuoco quei lacerti di una amicizia che molto si era nutrita di quell’illusione.  

Uscendo dal campo delle ipotesi per rientrare in quello della realtà, un altro fatto possiamo mettere in luce con sicurezza: l’amicizia tra Marianna Brighenti e Paolina Leopardi nacque all’insegna dell’amore per la musica, l’unica vera compagna di vita della contessa: «ed […] io non ho in mente che musica, non penso che a musica, non sogno che musica, e, potrei anche dire, non mangio che musica», conforto e sostegno di una vita straordinariamente monotona quanto straordinariamente infelice. Paolina, in quasi ogni lettera, non può che sfogare le tante sue amarezze, i suoi dolori, i suoi dispiaceri ed è veramente impressionante l’aura di sofferenza nella quale queste lettere sono avvolte, una sofferenza plumbea, soffocante, sempre uguale a se stessa nonostante il trascorrere degli anni. Per tanto, troppo tempo, si è cercato in queste lettere solo e soltanto i riferimenti che potessero far capo a Giacomo Leopardi, gettando via tutto il resto; fin troppe volte si è ripetuto che Paolina, affascinata dal suo grande fratello, si sia immedesimata a tal punto in lui da osservare la vita con i suoi stessi occhi, assumendone financo gli atteggiamenti più dolenti e sofferti. La realtà è un’altra e ben diversa: Paolina non scopiazzò niente e nessuno, la sua sofferenza non fu un abito mentale o, peggio ancora, un atteggiamento imitativo di sentimenti altrui; la sua sofferenza fu vera e palpabile come lo fu quella di suo fratello Giacomo, poiché la loro acutissima sensibilità, vorremmo dire quasi patologica, fu la medesima. Espressioni di Paolina del tipo: «Tu crederai bene che questo è per me l’unico piacere a questo mondo, ed in questa desolata vita ch’io meno, ed il più puro, e quasi l’unico ch’io pur desideri di provare» potrebbero benissimo ritrovarsi in una qualche lettera di Giacomo e non per spirito di imitazione; il modo con cui essi percepirono la vita fu il medesimo, medesima la voglia di ribellarsi a quei genitori che, pur amando i propri figli, non riuscirono a comprendere sino in fondo le loro sacrosante esigenze, medesimo il desiderio di fuga da quel paese troppo angusto per la loro personalità ormai moderna e fatalmente proiettata all’esterno, verso il futuro. Paolina in tutte queste lettere grida la sua infelicità, ma a gridare è la tenace voglia di vivere che le palpita in petto e che non riesce a piegarsi alla condizione presente; le lettere delle amiche riaccendono in lei, ogni volta, il fuoco di vita che le brucia nel corpo e si dispera, si strugge in pianti e in lamenti quando le due sorelle tardano a scrivere o quando le loro lettere le sembrano meno affettuose del solito. Paolina è come se fosse sola al mondo; nessuno gode presso di lei di particolare confidenza da poter raccogliere i suoi sfoghi, nessuno tranne le sorelle Brighenti, trait d’union tra la contessa e il mondo, le quali assolvono a questo compito con grande scrupolo e grandissimo senso di amicizia.

Quelle di Paolina Leopardi, come detto, sono lettere di grande sofferenza, di grandi dolori e amarezze, ma non per questo meno piacevoli da leggere. La contessa, che in gioventù ha ricevuto per volere del padre Monaldo una severa educazione classica e letteraria al pari dei fratelli Giacomo e Carlo Orazio e, come tutti loro, divora nel corso degli anni libri su libri, conosce bene l’arte della scrittura e sebbene alcune delle sue lettere non siano esenti da una certa trascuratezza, figlia della fretta, quasi dell’esaltazione con cui ella risponde alle amiche, riesce benissimo a trascinare le sue interlocutrici in quel vortice di gioia e di dolore, di speranza e di disillusione, di allegria e di disperazione in cui ella stessa si dibatte da tutta una vita. Gli argomenti sono sempre sostanzialmente gli stessi: i rivolgimenti politici, gli amori vissuti e non vissuti suoi e delle amiche, pettegolezzi e notizie varie sui cantanti che si trovano a lavorare insieme a Marianna, il tutto sempre incorniciato da un profluvio (qualche volta francamente eccessivo) di complimenti e di proteste di amore e di affetto eterni. Paolina sa utilizzare molto bene i vari registri, sa passare con disinvoltura dal patetico e il tragico (soprattutto quando parla della condizione del suo stato presente, ma trattasi di una tragicità vera, realistica, senza fastidiosi ricorsi alla retorica) all’ironico e quasi al faceto (quando si sofferma su argomenti più leggeri o deve descrivere se stessa o certe particolarità del suo carattere), e la sua capacità di ironizzare non ha niente da invidiare a quella di suo padre Monaldo o a quella di suo fratello Giacomo. Non sono pochi i passi gustosi come quello che possiamo leggere nella lettera del 10 giugno 1835: «Il primissimo debutto della signora Corradi fu a Recanati ove cantò due carnevali di seguito – il primo con gran furore, il secondo con assai meno, ed essa per consolarsi si maritò con Pantanelli che faceva da tenore; vero salame, simile in tutto, nella figura, al nostro cuoco – oh buongusto!». L’immagine ultima che rimane dopo la lettura di questo epistolario è comunque quella di un’anima sensibile, inesorabilmente repressa, profondamente infelice, che si mette a nudo con passione, senza infingimenti e senza vergogna di apparire, a volte, troppo patetica o ridicola.

La trascrizione delle lettere eseguita da Floriano Grimaldi non si discosta troppo da quella di Emilio Costa se non nella punteggiatura, ma essendo gli originali conservati in un archivio non accessibile al pubblico, non sappiamo dire quanto quella proposta dai due curatori corrisponda all’originale e, di conseguenza, quanto sia vasta la portata del loro intervento, anche se l’idea che ci siamo fatti è che Paolina (come suo padre Monaldo) non fosse troppo amante e troppo ligia all’uso corretto della punteggiatura. Peraltro, le regole alle quali il curatore sostiene di essersi attenuto non sono sempre da lui rispettate: se ad esempio, le abbreviature dovevano essere tutte sciolte, non si comprende perché, nella lettera 1 a pag. 81, la parola signor, ripetuta tre volte e da Paolina sempre abbreviata, come si può vedere nell’autografo a fianco, sia stata sciolta una volta sola. Lo stesso dicasi per la parola dev.ma a fine lettera, non sciolto in devotissima.

Se, poi, gli apparati come la scheda di Paola Ciarlantini sulla carriera artistica di Marianna Brighenti ed il capitolo introduttivo, a cura dello stesso Grimaldi, risultano agili e completi, rispondendo così onorevolmente all’esigenza divulgativa del volume, crediamo fermamente che le lettere avrebbero dovuto essere corredate da un commento il più esaustivo possibile e non da semplici note al testo che, a volte, sono troppo sbrigative. Non sappiamo quanta utilità il lettore possa ricavare dal trovarsi spiegati in nota nomi come Virgilio o Sannazaro e quanto invece, ad esempio, sarebbe stato utile apprendere che il Bosdari nominato a metà della lettera 42 del 7 giugno 1832 e che il curatore sostiene essere di difficile interpretazione, altri non è che il gonfaloniere di Ancona assassinato durante i moti di quell’anno ricordato da Paolina nelle righe precedenti o che «l’amico» interessato all’impiego di soprintendente dei Sali e Tabacchi nel porto di Fermo, citato da Paolina nella lettera 51 del 10 aprile 1833 e per il quale il curatore non propone alcuna candidatura, risulta essere il fratello Carlo Orazio. Non mancano poi, purtroppo, veri e propri errori di stampa come Felice Damiani per Felice Romani nella nota a pag. 129, Pietro Brigenti per Pietro Brighenti nella nota a pag. 191, Paolina Lombardi per Paolina Leopardi nell’indice a pag. 375. Ma questi nostri appunti non vogliono assolutamente sminuire i tanti meriti di questa edizione, primo tra tutti rendere finalmente accessibile al grande pubblico, nella sua interezza, un suggestivo carteggio di mano di una donna che merita di essere ancora studiata con puntualità ed impegno.