Recensioni

Pier Vincenzo Mengaldo, Leopardi antiromantico e altri saggi sui «Canti», Bologna, il Mulino, 2012, pp. 209.

 

 

Marco Grimaldi

Université Paul-Valéry Montpellier III

grimaldi.marco@gmail.com


 

 

Le pagine dei maestri non interessano solo per i risultati. Spesso, come nel caso del Leopardi antiromantico di Pier Vincenzo Mengaldo, quel che più conta è la lezione di metodo. Il volume, che riunisce alcuni saggi apparsi tra il 2009 e il 2011 e degli inediti e segue la raccolta Sonavan le quiete stanze (2006) e i due volumi dell’Antologia leopardiana (2011), può essere letto come una applicazione dei principi della critica stilistica (da affiancare ovviamente alla Prima lezione dello stesso Mengaldo). La stilistica si fonda sulla ragionevole ipotesi che vi sia una corrispondenza tra gli aspetti metrico-formali e l’ideologia e la poetica degli autori. Tale corrispondenza è tuttavia soggetta al tempo: l’associazione tra significante e significato deve essere infatti ritenuta, in letteratura come in linguistica, arbitraria. Occorre dunque un paziente lavoro di raccolta dei dati, il confronto continuo con le dichiarazioni di poetica, l’analisi della tradizione e della letteratura contemporanea per comprendere il grado di libertà delle scelte di un singolo autore e, in generale, per distinguere i fatti di langue da quelli di parole. In questa prospettiva, Leopardi è un caso di studio privilegiato: un corpus relativamente ristretto, un autore che esplicita in prosa la propria poetica e professa a chiare lettere l’identità del filosofo e del poeta e che offre la possibilità di scrutare nel laboratorio delle varianti d’autore l’evoluzione del pensiero e dello stile.

Il libro si può dividere in tre parti: nella prima troviamo saggi generali sul pensiero e l’opera di Leopardi; nella seconda interventi su aspetti della metrica e della lingua dei Canti; nella terza tre letture di altrettante poesie. In Leopardi antiromantico (pp. 13-31), attraverso puntuali analisi dei fenomeni formali messi in relazione con le prose e le dichiarazioni di poetica, Mengaldo dimostra innanzitutto la lontananza di Leopardi dal Romanticismo europeo, confermando le conclusioni, tra gli altri, di Timpanaro. Il metodo applicato per mostrare affinità e differenze tra Leopardi e il Romanticismo europeo è una prima lezione su come si commenta un poeta moderno. Come quando nota l’assenza di comparazioni o identificazioni analogiche in serie stretta di tre (tipo: come... e come... e come) diffuse invece in Lamartine, Hugo, Shelley, Vigny, Musset, Coleridge, Lermontov, Puskin, Brentano (p. 15); o quando offre una fulminante rassegna di passi per spiegare che in Leopardi le personificazioni si trovano in numero limitato, in sintonia con lo stile classico, al contrario di quanto accade nei romantici dove sono sovrabbondanti (pp. 16-17). Il discorso procede per contrasti e analogie anche sul piano tematico: in Leopardi mancano l’esotismo, il gusto medievistico, il magico-fantastico e il satanico di tanti romantici. Affinità e differenze vengono riassunte spesso in formule estremamente efficaci, come quando Mengaldo spiega che nei romantici il poetare «procede per accumulo, espansione ed esplicitezza creativa, in Leopardi al contrario secondo condensazione, concisione e implicitezza» (p. 20); o quando chiarisce che, al contrario dei romantici, Leopardi non è «mai riassuntivo ed emblematico ma sempre, per dirla così, distributivo e addetto al singolare concreto» (p. 17). Di grande importanza sono poi alcune osservazioni di carattere generale (in linea con le analisi sulla poesia moderna di Guido Mazzoni), come l’idea che in Leopardi si compia la trasformazione della lirica da sede del grande stile a «luogo in cui l’energia dell’individuo si oppone all’ordine della società vigente, nonché all’operazione che rende possibile questa sublimazione, vale a dire la trasformazione della lirica da genere poetico fra i tanti in forma assoluta dell’espressione e stampo poetico non fungibile del sé» (p. 30). Il saggio dedicato alle Due forme del discorso poetico leopardiano (pp. 33-54) si apre osservando come i monologhi degli alter ego leopardiani rimandino a una teatralità tragica che supera i confini della lirica e prosegue mostrando che la sostanza delle allegorie di Leopardi, a differenza di quelle dei maggiori romantici, è «prodotto di un pensiero, non di una sensibilità» (p. 10). Dal saggio su ‘Io’ e ‘noi’ nei «Canti» (pp. 55-73) si apprende come l’io e il noi siano nei Canti due modalità altrettanto importanti di una lirica che nel momento stesso in cui si individualizza e chiude nel soggetto enuncia proposizioni che si vogliono oggettive e universali. Infatti, secondo Mengaldo, nei Canti «si intrecciano e si sommano due paradigmi, quello io/tu [...] e quello io/noi» (p. 72).

Impossibile rendere conto della densa disamina delle Note di sintassi poetica leopardiana (pp. 75-106), dove Mengaldo studia in particolar modo l’uso del polisindeto, arrivando a sancire una frattura fra gli Idilli (dove è frequente) e il resto delle poesie (dove è raro), con alcune eccezioni, come quella particolarmente rilevante della Ginestra. Una sintassi che Mengaldo definisce «dell’e» e che è considerata «un altro aspetto della sua ‘grecità’: garante dell’unica condizione alla quale per Leopardi, saltando sopra la decadenza e la prigionia del moderno, si può e si deve veramente poetare, specie nell’unica autentica, per lui, dimensione poetica, quella lirica» (p. 106). L’esame delle varie tecniche di legatura delle strofe non è considerata una semplice eredità della canzone antica ma è letta nel quadro di una tecnica della ‘sovrainarcatura’, fatta di continuità sintattiche e testuali. Ed è forse non «un’ulteriore vittoria della libertà del soggetto poetante» (p. 112). Ma è in fondo un’esigenza di ogni poesia che nell’atto di liberarsi dalle regole della tradizione ha la necessità di darsi regole nuove per conferire solidità alla struttura metrica e retorica (come accadrà, per fare un solo esempio, con Montale). Stesso discorso per le rime. Mengaldo mostra benissimo (in Quanto sono ‘sciolti’ gli sciolti di Leopardi?, pp. 127-144), partendo dal confronto serrato con Parini, Cesarotti, Monti e Foscolo e altri rappresentanti della tecnica dei versi sciolti, come Leopardi «‘nasconda’ di più» (p. 142) rispetto ai predecessori e che «rime e pararime si infittiscono negli attacchi e nelle chiuse dei testi» e «tendono a situarsi, piuttosto che in fine di verso, all’interno o al mezzo» (p. 144). Ciò dimostra senz’altro che Leopardi, «poeta sempre segreto», nasconde e non rivela; ma conferma anche che una poesia senza regole non è concepibile neppure per il primo dei poeti moderni. A proposito di ‘Legato’ e ‘staccato’ nei versi dei «Canti» (pp. 115-125), occorre ricordare le premesse di Mengaldo, che chiama endecasillabi con ‘legato’ i versi con almeno una sinalefe e con ‘staccato’ quelli che ne sono del tutto privi, precisando che la lingua italiana, essendo fortemente vocalica, genera prevalentemente versi del primo tipo. Con queste premesse, l’autore studia il rapporto con la micro e la macrosintassi, osservando, ad esempio, che, data la tendenza di Leopardi a iniziare il periodo al centro del verso o in fine, la sinalefe concorre in un certo qual modo a fondere «ciò che sintatticamente è disgiunto o discreto» (p. 118). Il tipo di endecasillabo con ‘staccato’, in ragione della sua scarsa frequenza (1/7 delle occorrenze), tende invece, per ricordare solo alcune delle osservazioni, a posizionarsi ad attacco o in chiusa di strofa, a rimarcare «momenti di ‘agitato’» (p. 120). Lo studio su Strutture fini e costruzione nella “Sera del dì di festa” (145-155), componimento ritenuto «uno dei più sapientemente costruiti di Leopardi» (p. 155), richiede altrettanta acribia da parte del critico, che sottopone il lettore alla rassegna delle caratteristiche tecniche: una sola rima e parecchie assonanze; consonanze e quasi rime interne o al mezzo che confermano la tendenza del poeta alle rime o pararime; molti endecasillabi x-6a-10a; frequenza dei versi con almeno una sinalefe; inconsueta ricorrenza di polisillabi in -ente, -mente; particolare tessuto lessicale; «sottolineature aggressive e disfemiche», accompagnate da interiezioni e interrogazioni. Elementi che sostanziano l’idea di un passaggio dall’io metafisico dell’Infinito a un io ‘singolare’ e sofferente. Nella fenomenologia delle correzioni, Mengaldo sottolinea l’attenuazione classica, la spinta verso l’indeterminazione e in generale, più del gusto della variatio, la ricerca dell’esattezza.

Nel saggio Una lettura di “A Silvia” (pp. 157-175), il testo che inaugura quella che Carducci definiva la «forma senza forma» della canzone libera, Mengaldo parte dal contesto, cioè dalle lettere e soprattutto dal passo dello Zibaldone nel quale si descrivono le possibili sventure di «una giovane di 16 o 18 anni» (Zib. 4310-11), chiarendo come Leopardi già qui «disponga quasi la ‘situazione’ in forma di tema poetico» (p. 159). Passa poi ai fenomeni formali: rime sempre piane e vocaliche, le solite rime interne e pararime e altri giochi fonici, il ruolo principe dei settenari, l’uso dell’interrogazione e dell’allocuzione che «fissano [...] quella modalità mossa e patetica che disloca via via [...] sentimenti e punti di vista del soggetto poetante» (p. 169), il ricorso a nuove leggi metriche per una canzone senza forma (come quella che prevede che il verso incipitario di ogni lassa sia anarimo), la presenza dell’allegoria (prima assente dai Canti), che «farà mostra di sé sempre in presenza di canzoni libere»; «[...] un’inattesa quanto singolare implicazione tra forma e pensiero poetico» (p. 164). Di particolare interesse lo studio della sintassi, qui «semplice, vicina al parlato interiore» (p. 171); in A Silvia l’ordine degli aggettivi è quasi sempre quello normale ed è proprio per questo che spiccano gli epiteti: «Qui più che mai comunque la novità e purezza del canto di Leopardi non va misurata secondo la nostra competenza linguistica, ma proiettandola contro le abitudini, ben più letterarie nell’ordine delle parole, della poesia italiana del tempo» (p. 172). Questo dialogo con un tu assente, che forse «risale al rito arcaico dell’evocazione dei morti», lirico e narrativo, che si chiude in perfetta circolarità sulla morte (mortale al secondo verso e la morte del penultimo) e dove il Silvia dell’incipit è anagramma dell’ultima parola della prima stanza (salivi), è composto di un lessico di «dignitosa antichità» (p. 173), come una «veste antica o per dirla tutta greca» (p. 174), che implica una «castità espressiva, capacità di dir molto e moltissimo con poco». In Per un commento alla ‘Quiete dopo la tempesta’ (pp. 177-201), la lirica della meditazione sul piacere passeggero, si parte dalla discussione dell’avantesto e del titolo, precisando che la tempesta è solo suggerita e ipotizzando che il titolo possa indicare un antecedente. In una poesia nella quale si «canta [...] l’epifania creaturale della struggente quotidianità che torna a manifestarsi dopo la minaccia» (p. 179), un terzo delle parole piene o sintagmi coesi sono hapax della raccolta o di tutta l’opera e stanno a connotare «la varietà e singolarità dei realia». Nella rappresentazione ricorrono le ‘azioni’, lo stile è rapido e conciso, le frasi semplici. Leopardi, insomma, esprime tanto con poco. Mengaldo procede quindi a un commento puntuale (pp. 184 ss.) e opera infine un confronto con il Sabato, che si può ritenere l’altra parte di un dittico nel quale Leopardi guarda a uno stesso nodo della condizione umana da due punti di vista diversi: «l’assurdità del piacere da un lato, dall’altro la sua possibilità di comporsi con la speranza e con quelle illusioni che [...] sono per lui l’unico sale della vita» (p. 198). In definitiva, nella Quiete, dove la ragione poetica ha la meglio su quella filosofica, Leopardi pare mettere in pratica principi affermati nello Zibaldone secondo i quali la poesia, anche quando rappresenta l’infelicità, serve sempre di consolazione. E tuttavia tra le due ragioni, conclude Mengaldo, c’è una contraddizione originaria e forse irrimediabile.

C’è infine una questione terminologica che mi pare problematica. Mengaldo spiega che l’allegoria è del tutto estranea alla fase delle Canzoni e si affaccia per la prima volta in A Silvia, «in una forma da un lato ancora indiretta ma dall’altro molto singolare» (p. 39), dato che Silvia, per così dire, è al tempo stesso figurante e figurato, poiché rappresenta la speranza e la speranza rappresenta Silvia. Poi, nella Quiete e nel Sabato, «l’allegorismo prende fiato» (p. 40), poiché nella prima «la ripresa della vita attiva dopo la tempesta è immagine parlante del carattere effimero e vano del piacere», mentre nel secondo «è di scena l’attesa, destinata ad essere fatalmente delusa, di una felicità futura». E così Mengaldo descrive, nel Canto notturno, «il discorso o canto del pastore come allegoria dell’umana condizione» (p. 41). Questo tipo di ‘allegoria’, come già spiegato, è sempre, in Leopardi, «oltre che limpida e univoca, esplicita, dispiegata alla presenza dell’io poetico che la detta e ragiona» (p. 53), e ciò contribuisce a sancire ancora la distanza dai romantici e ad evitare la ‘distruzione della realtà immediata’ temuta da Lukács per l’allegorismo e che portava altri (Croce, su tutti) a ritenere l’allegoria poco adatta alla ‘Poesia’. Ora, benché le osservazioni di Mengaldo siano sostanzialmente condivisibili, mi chiedo se sia corretto utilizzare il termine ‘allegoria’ per questo tipo tanto peculiare di similitudine che conduce Leopardi a esprimere considerazioni di carattere filosofico a partire dalla descrizione di fenomeni naturali o psicologici (come in A Silvia o nella Quiete). Le definizioni dell’allegoria non sono costanti nel tempo e nulla ci impedisce di attribuire al termine una nuova accezione. Tuttavia, a giudicare dallo Zibaldone (176-77; 244-45; 637; 1828; 4365-66; 4477 ecc.), per Leopardi ‘allegoria’ indica sempre qualcosa di negativo; il termine è utilizzato quasi esclusivamente per definire la poesia con personificazioni, dunque quel che chiamiamo poema allegorico; ed è soprattutto una caratteristica dei poeti nordici, del tutto distante dalla sua sensibilità e dalla sua idea di poesia. Benché non esista solo una modalità oscura dell’allegoria (nei trovatori, ad esempio, la poesia con personificazioni è quasi sempre uno strumento per chiarire e non per celare il senso), tra Sette e Ottocento era perlopiù impiegata – o almeno così riteneva Leopardi – in funzione simbolica e allusiva e risultava quindi inconciliabile con il progetto leopardiano di una poesia al tempo stesso chiara e speculativa.