Essendomi assunto il compito di
esporre, in una sintesi inevitabilmente parziale e provvisoria, il mio punto di
vista sull’etica e su una sua possibile fondazione teoretica; ed essendo
consapevole della intrinseca aporeticità di ogni
declinazione ideologica del problema
morale, ho deciso di dare inizio alla mia esposizione con un paradosso. Ad enunciarlo
è un personaggio Dostoevskijano, Andrej Semenovic Lebezjatnikov, che afferma:
«devo ammetterlo, non posso approvare, per principio, la beneficienza privata,
giacché non solo non elimina radicalmente il male, ma anzi lo alimenta.»
(Dostoevskij, 1989: 442) Dostoevskij tratteggia parodisticamente il personaggio
di Lebezjatnikov che considera «piuttosto stupido» e che caratterizza
come tipico esempio di «quella sconfinata ed
eterogenea schiera di individui banali, di aborti malaticci e di tipi bizzarri
che hanno studiato male un po’ di tutto, e che si accodano sempre all’idea più
di moda, per subito rovinarla rendendo immediatamente ridicolo tutto ciò a cui
essi […] si dedicano anima e corpo.» (ibid.) Ma una tale caratterizzazione in
negativo del personaggio non è sufficiente a neutralizzare il potere di
provocazione contenuto nel paradosso che egli sostiene: la beneficienza, in
luogo di eliminare il male, lo alimenta.
Ora, beneficienza significa
letteralmente: “bene facere”, fare il bene, compierlo.
Ma che significa fare il bene? Siamo sicuri, intanto,
che dal bene (dalla intenzione di fare il bene) possa
derivare solo il bene e dal male (dalla intenzione di fare il male) solo il
male? Non è forse legittimo, capovolgendo il paradosso goethiano (secondo cui
il diavolo è quella forza che vuole fare il male e finisce per operare il bene),
affermare che chi vuole il bene finisce per lo più per
operare il male? La storia (così come la nostra stessa esperienza quotidiana)
non ci mette in continuazione di fronte a situazioni descrivibili mediante la
formula della eterogenesi dei fini? Non si finisce
spesso per realizzare il contrario di ciò che ci si era proposti
di fare?
Gide diceva che con i buoni
sentimenti non si fa la letteratura e, aggiungiamo noi, neppure il bene. Non è
forse vero che la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni? E che
le cose peggiori sono sempre state fatte con le migliori
intenzioni? (O. Wilde) Chi non prende in
considerazione questa eventualità chiude gli occhi sul mondo e si preclude la
possibilità di operare proficuamente in esso.
Ma mettiamo da parte questo aspetto del problema che, in forza della sua
complessità, non possiamo affrontare in questa occasione e soffermiamoci su un
altro aspetto del paradosso della beneficienza, in cui ad essere in questione è
la possibilità stessa di operare il bene. La domanda che sto per pormi e per
porvi potrà apparire, di primo acchito, bizzarra o puramente provocatoria; ma, ad una analisi più attenta, si vedrà che contiene in sé
nuclei di problematicità non eludibili. Perché si dovrebbe fare il bene? E perché, se è vero che si dovrebbe fare il bene, l’uomo opera per
lo più nella direzione del male? Incentriamo l’attenzione sul verbo dovere che non casualmente ho coniugato
al condizionale. Cosa significa mettere in relazione
il bene con il dovere? Se il bene lo si deve fare,
se si deve agire conformemente ad una
qualche legge giuridica o morale che ci impone di fare il bene, è perché di
fatto, il bene, non lo si vuole fare. La legge non avrebbe alcun senso se il
suo contenuto fosse conforme alle intenzioni della volontà che ad essa deve
obbedire. Se voglio non ha nessun senso impormi di
volere ciò che già voglio. Ma se non voglio, e posto che l’obbedienza implica necessariamente un atto della volontà, come posso voler-dovere? Insomma, affinché il dovere venga
compiuto, occorre che la volontà sia determinata a volere ciò che non vuole. E
a questo punto il paradosso è interamente dispiegato. Un’etica del dovere
implica una paradossale conflittualità, tutta interna
al volere, tra una volontà che deve
ciò che non vuole e una volontà che vuole ciò che non deve volere. Ma se conflitto si dà nel cuore della volontà stessa,
occorre che vi sia una ragione in forza della quale tale conflitto si sciolga
in favore dell’una o dell’altra opzione (o ciò che si
vuole o ciò che si deve). Detto ancor
più chiaramente: che la volontà voglia ciò che vuole e decida conformemente al
movente che la determina a volere ciò che vuole si
comprende da sé. Ma per quale ragione la volontà dovrebbe volere ciò che non vuole, ossia,
ciò che deve?
Esposte, sia pure molto
sommariamente, le antinomie dell’etica del dovere,
soffermiamoci a considerare se non vi siano delle alternative
possibili alle etiche normativo-prescrittive
(quelle etiche, cioè, in cui si dà per presupposto che la legge trascenda il
volere che ad essa deve conformarsi).
Ebbene, non possiamo non prendere in considerazione, in primo luogo, quella alternativa che ci inquieta da duemila anni e che ci pro-voca ad una scelta esistenziale che
pare eccedere l’umano; quella alternativa che ci libera da ogni sudditanza
rispetto alla forma della legge nel mentre ci consegna e ci inchioda ad una ben
più alta ed onerosa responsabilità (una responsabilità non di fronte alla legge
ma di fronte a noi stessi, alla forma-di-vita
che abbiamo scelto per noi). L’alternativa a cui
alludo è ovviamente quella costituita dall’etica cristiana o, come forse
sarebbe più giusto dire, ‘cristica’. Se,
infatti, il fondamento dell’etica testimoniata da Cristo va cercato nell’amore
incondizionato per il prossimo, se è la caritas il movente che determina, conformemente al paradigma
etico cui si ispira, il vero cristiano; allora l’etica del dovere è, di fatto, resa inoperosa, svuotata di ogni significato (benché
non rinnegata nei suoi contenuti). Se è l’amore che muove la volontà del
credente in Cristo, allora nessuna legge, nessun dovere è più richiesto a fondamento
dell’agire morale. L’amore è caritas,
atto gratuito che non si nutre d’altro movente che delle ragioni del cuore che
ama e che amando non può volere altro che il bene dell’amato
(del suo prossimo). Ma a questo punto si fanno avanti
due ineludibili obiezioni. La prima: come imporre l’amore? Come renderlo
effettuale nella vita del singolo? È possibile coniugare il
verbo amare all’imperativo? Se l’amore fosse prescrivibile
non ricadremmo nuovamente nelle antinomie dell’etica del dovere? Ma non basta. E siamo alla seconda
obiezione: l’amore incondizionato per il prossimo, l’amore
che non chiede ricompensa, che è pura gratia,
che tutto per-dona e nulla pretende,
è un amore di cui l’uomo è capace? La misura d’amore ‘rivelata’ dal Cristo non
eccede forse la potenza di esistere di un ente, l’uomo, segnato da una
costitutiva e radicale fragilità e crocefisso alla propria finitezza? Certo, ci si può obbiettare che il miracolo della fede consiste
appunto nel renderci capaci dell’impossibile. ‘Credi e smuoverai le montagne’. Ma, per chi non riesce a credere, le montagne restano lì,
immobili, granitiche, insormontabili. E gli abissi di dolore che l’uomo deve patire
(spesso per mano di un altro uomo) continuano a tormentarci come altrettante scandalose
ferite che nessuna consolatoria teodicea o antropodicea riesce a sanare o a
lenire.
Prendiamo in considerazione, allora,
l’ipotesi che esista una alternativa laica all’etica
prescrittivo-normativa e chiediamoci: è possibile immaginare un mondo fondato
su ‘liberi legami’ d’amore? Ma prima ancora chiediamoci: per quale essenziale
ragione non è possibile, dal punto di vista di una filosofia radicalmente
laica, una filosofia della immanenza, prestar fede al mandatum novum rivelato dal Cristo?
Si rende necessaria a questo punto una
breve digressione di carattere antropologico. Soltanto sul fondamento di una
chiarificazione della costituzione ‘ontologica’ della ‘natura umana’ ci sarà
possibile pervenire alla determinazione dei caratteri essenziali di un’etica
(immanentistica) dell’amore. A guidarci, in questo excursus, sarà, inizialmente, la filosofia di Spinoza. Ascoltiamo
le proposizioni sesta e settima della terza parte dell’Etica:
Ogni cosa, per quanto è in essa, si
sforza (conatur) di perseverare nel
suo essere. (Pr. 6)
Lo sforzo (conatus), col quale ogni cosa tende a perseverare
nel suo essere, non è altro che l’essenza attuale della cosa stessa. (pr. 7)
(Spinoza, 1985: 140)
Dalla lettura delle proposizioni sopra
citate emergono due importanti conseguenze: la prima riguarda il concetto di
bene e si può così riassumere: non esiste alcuna essenza del bene, essendo
quest’ultimo relativo allo stato in cui la cosa singola si trova nel suo
tendere alla conservazione e all’accrescimento della sua potenza di esistere. Non esiste il
Bene assoluto, il Bene in sé.
Noi non tendiamo ad
una cosa, vogliamo, appetiamo, desideriamo una cosa per il fatto che la
riteniamo buona, ma che, al contrario, giudichiamo che una cosa sia buona
perché tendiamo ad essa, l’appetiamo e la desideriamo. (Scolio della pr. 9) (Ivi. 142)
È solo relativamente
al nostro desiderare che una cosa si definisce buona o cattiva e questo
significa che non esiste altro bene che un bene relativo. E questo ci porta
alla seconda conseguenza implicita nelle proposizioni sesta e settima
dell’Etica: se non possiamo amare (desiderare e appetire) se non ciò che
conserva e accresce la nostra potenza di esistere, non può darsi alcuna forma
di amore contraria a quella che tale conservazione ed
accrescimento consente e favorisce. Non si può volere il proprio male e,
dunque, non si può amare l’altro incondizionatamente; una forma d’amore che anteponga
il bene altrui al proprio è contraria alla essenza che
ci costituisce in quanto cosa singola. L’amore incondizionato per il prossimo è
(onto)-logicamente impossibile e un’etica more geometrico demonstrata non può che condurre a
questa conclusione. Ma allora? Dobbiamo forse
arrenderci di fronte alla constatazione della irrealizzabilità
di una morale laica dell’amore? Se l’amore per l’altro è condizionato dalla
realizzazione del nostro utile (si ama l’altro solo se dall’altro può venircene
un qualche particolare tornaconto) dobbiamo forse arrenderci alla constatazione
secondo la quale non è possibile alcuna etica che non si risolva nelle forme
del più bieco utilitarismo egoistico?
Questa deduzione sembrerebbe confermata
da un passo dello Zibaldone di
Leopardi che recita:
La natura è vita. Ella è
esistenza. Ella stessa ama la vita, e proccura in
tutti i modi la vita, e tende in ogni sua operazione alla vita. […] E quindi è necessario alle cose esistenti amare e
cercare la maggior vita possibile a ciascuna di loro. […]
Quindi ciascuno essere, amando la vita, ama se stesso: pertanto non può non
amarla, e non amarla quanto si possa il più […]; per la stessa ragione per cui
egli non può odiar se stesso, proccurare, amare il suo male, tendere al suo
male, non odiarlo sopra ogni cosa e il più ch'ei possa, non amarsi, non solo
sopra ogni cosa, ma il più ch'egli possa onninamente amare. (Zib. 3813-15)
Dal punto di vista
di Leopardi, per il quale l’amor proprio (da cui derivano tutti gli altri
affetti) è costitutivo della essenza di ogni essere
vivente (dunque anche e innanzitutto dell’uomo), il puro altruismo dell’etica
cristiana è semplicemente impossibile.
La legge Cristiana essenzialmente e capitalmente
e in modo che senza ciò ella non sussiste, prescrive
di amar Dio sopra tutte le cose, i prossimi come se stesso per amor suo, e se
stesso non per se stesso, ma per amor di Dio; ond'è ch'ella comanda ancora
l'odio di se stesso ec. Ora torcete la cosa quanto volete, siccome per una
parte non potrete mai negare che la legge Cristiana non obblighi assolutamente
l'uomo a porre un altro Essere al di sopra di se stesso nel suo amore per ogni
verso; così nell'ultima e più sicura ed infallibile analisi della natura (non
solo umana, ma vivente, anzi di quella natura che sente in qualunque modo la
sua propria esistenza) troverete che questo è dirittamente e precisamente
impossibile, e contraddittorio al modo reale di essere delle cose. (Zib. 2232)
L’uomo non può far altro che volere il
proprio bene e odiare il proprio male: egli si ama sopra ogni cosa e subordina
l’amore nei confronti degli altri all’amore che prova
per sé. Con ciò, però, l’amore per l’altro non è affatto
negato (e come potrebbe Leopardi negare l’evidenza); è soltanto relativizzato:
non poter amare incondizionatamente il prossimo in quanto tale, non significa
affatto non poter e non saper amare. Si ama, per elezione e per preferenza,
quel prossimo che giudichiamo (più o meno
consapevolmente) essere fonte di felicità per noi. Amiamo perché amando perseguiamo il nostro bene. E l’amore per l’altro,
sebbene subordinato all’amore per sé, non comporta affatto,
per Leopardi, la negazione di comportamenti ed atti moralmente ‘sublimi’. Ed infatti, come prova il sentimento
della compassione, a cui Leopardi dedica nello Zibaldone una sottilissima analisi psico-genealogica, le stesse
virtù morali, le più apparentemente lontane
o, addirittura, contrarie all’amor proprio, e «tali da non potersi in nessun
modo e per niuna parte ridurre o riferire» ad esso, pure non derivano, in
ultima istanza e come tutti gli altri affetti, se non da esso. (Zib. 3109) Giacché
L'egoismo giunge fino a sacrificar se stesso a se
stesso: tanto è l'amor ch'ei si porta, ch'ei si fa
volontaria vittima di se medesimo: tanto egli è pieghevole e vario, e capace di
tanti e sì strani e sì diversi travestimenti, che per suo proprio amore ei
cessa anche di esser egoismo, e quando voi lo vedete sacrificar se medesimo,
egli è allora il più raffinato egoismo che si trovi, il più efficace e potente
e imperioso, il più intimo e il più grande, perocch'egli è maggiore negli animi
in proporzione ch'ei sono più vivi, delicati e sensibili, (come altrove più volte
ho detto), quale è necessario che sia in sommo grado chi può veramente di sua
propria volontà e scelta sacrificar se medesimo. (Zib.
3168-69)
Resta
il fatto che l’amore per l’altro, in quanto subordinato all’amor
proprio, che è costitutivo della essenza della natura umana, non può essere mai
universale e incondizionato. Non posso, ad esempio, amare quell’altro che è per
me cagione del mio male (un tale comportamento sarebbe contrario alla essenza stessa dell’uomo e di ogni vivente). Ma allora
come pensare ad un etica dell’amore che non conduca al
paradosso della ‘elezione’ (amo solo il prossimo che considero ‘mio’ prossimo)
e della ‘preferenza’ (amo solo questo
particolare prossimo – in quanto considero il suo bene come mio – mentre non
posso far altro che odiare quel ‘prossimo’ il cui bene reputo contrario alla
realizzazione del mio.)? Si arresta il pensiero di Leopardi di fronte alla
constatazione di questa antinomia? Nient’affatto.
In una annotazione
dello Zibaldone che ha per oggetto il
rapporto tra la politica e il bene comune, Leopardi scrive:
La ragione, il principio, lo scopo della società, non è
altro che il ben comune di coloro che la compongono e si uniscono
in un corpo più o meno esteso. Senza questo fine, la società manca della sua
ragione. E siccome ella è non solamente irragionevole
se non ha questo fine, ma è ancora non pure inutile ma dannosa all'uomo, se
sussiste senza conseguirlo; perciò se il detto fine non si realizza, conviene
scorre la società, perché questa per se stessa, e indipendentemente dal detto
fine, porta all'uomo più nocumento che vantaggio, anzi solo nocumento.
Ora il ben comune di un corpo o società, non si può
ottenere, se non per la cospirazione di tutti i membri di lei
a questo fine. Così accade in tutte le cose: che un effetto, il quale deve risultare da molte cagioni, e da molte forze, operanti
ciascuna per la sua parte; non può realizzarsi senza l'accordo e cospirazione
congiunta e convenevole di tutte queste forze, verso il detto effetto. Ecco il
principio d'unità: principio che risulta
necessariamente dallo scopo della società, ch'è il ben comune. E perciò, come
nel ben comune, e non in altro, consiste la ragione della società; così questa
rinchiude essenzialmente il principio di unità. (Zib. 547-48)
Il ragionamento
leopardiano è chiarissimo: una società che non realizzi il bene comune è
inutile e dannosa, in quanto contraddice lo scopo in
vista del quale si è costituita. «Come dunque lo scopo della società è il ben
comune; e il mezzo di ottenerlo, è la cospirazione degl'individui
al detto bene, ossia l'unità; così l'ordine, lo stato vero, la perfezione della
società, non può essere se non quello che produce e cagiona perfettamente
questa cospirazione e unità. Giacché la perfezione di qualunque cosa, non è
altro che la sua intera corrispondenza al suo fine.» (Zib. 549)
Ma come può l’unità della ‘comunità’ risultare
dalla somma o dalla sintesi dei particolarismi egoistici dei membri che la
compongono? Lo scetticismo politico di Leopardi trova in questa contraddizione
la sua ragion d’essere.
L'amor proprio dell'uomo, e di qualunque individuo di
qualunque specie, è un amore di
preferenza. Cioè l'individuo amandosi naturalmente quanto può amarsi, si
preferisce dunque agli altri, dunque cerca di soverchiarli in
quanto può, dunque effettivamente l'individuo odia l'altro individuo, e
l'odio degli altri è una conseguenza necessaria ed immediata dell'amore di se
stesso, il quale essendo innato, anche l'odio degli altri viene ad essere
innato in ogni vivente. Dal che segue per primo corollario, che dunque nessun
vivente, è destinato precisamente alla società, il cui scopo non può essere se
non il ben comune degl'individui che la compongono:
cosa opposta all'amore esclusivo e di
preferenza, che ciascuno inseparabilmente ed essenzialmente porta a se
stesso, ed all'odio degli altri, che ne deriva immediatamente, e che distrugge
per essenza la società. (Zib. 872-73)
Il giovanile
scetticismo politico di Leopardi trova poi una icastica
conferma in un celeberrimo brano di una lettera al Giordani del 1828:
In fine mi comincia a stomacare il
superbo disprezzo che qui si professa di ogni bello e di ogni letteratura;
massimamente che non mi entra nel cervello che la sommità del sapere umano stia
nel saper la politica e la statistica. Anzi, considerando filosoficamente
l’inutilità quasi perfetta degli studi fatti dall’età di Solone in poi per
ottenere la perfezione degli stati civili e la felicità dei popoli, mi viene un
poco da ridere di questo furore di calcoli e di arzigogoli politici e
legislativi; e umilmente domando se la felicità de’ popoli si può dare senza la
felicità degli individui. […] Io tengo (e non a caso)
che la società umana abbia principi ingeniti e necessari d’imperfezione, e che
i suoi stati sieno cattivi più o meno ma nessuno possa essere buono. (Leopardi,
1989: 1321)
Ma il pensiero leopardiano non sa arrendersi
neppure di fronte a questa sconsolata e desolante misura di realismo politico.
Cosa può limitare quell’egoismo particolaristico che pare inscindibile (per
ragioni essenziali) dal modo di essere del singolo individuo e favorire la
costituzione di una società che tenda (come dovrebbe) alla realizzazione del
bene comune? Come tenere insieme le smembrate membra
delle individualità egoistiche in un corpo sociale coeso? Occorre individuare
qualcosa che sia comune a tutti i singoli, qualcosa che, a dispetto di ogni
particolarismo, li possa legare in ‘social catena’. Ma da che cosa possono essere universalmente accomunati gli
uomini? La risposta leopardiana è, apparentemente, sconcertante: il dolore. Il
poeta di Recanati ha gioco facile nel mostrare come la consapevolezza della universalità del dolore sia un tratto caratteristico e
fondante della nostra tradizione culturale. Si
legga il seguente passo del Dialogo di
Tristano e di un amico:
Io diceva
queste cose fra me, quasi come se quella filosofia dolorosa fosse d’invenzione mia […]. Ma poi, ripensando, mi ricordai ch’ella era tanto nuova, quanto Salomone e quanto Omero, e i
poeti e i filosofi più antichi che si conoscano; i quali tutti son pieni
pienissimi di figure, di favole, di sentenze significanti l’estrema infelicità
umana; e chi di loro dice che l’uomo è il più miserabile degli animali, chi
dice che il meglio è non nascere, e per chi è nato morire in cuna; altri, che
uno che sia caro agli Dei, muore in giovinezza, ed altri altre cose infinite su
questo andare. (O.M.
108).
Ecco cosa hanno in comune gli uomini:
l’esperienza del patire, della universalità, della
fatalità, della immedicabilità del dolore. Questa consapevolezza è comune ad
Atene come a Gerusalemme. Nel libro di Giobbe è scritto: «L’uomo,
nato da una donna, ha vita breve e piena d’affanni. Come un fiore sboccia ed appassisce, fugge come l’ombra e non s’arresta e si disfa
come legno fradicio, come un vestito roso dalla tignola.» (Giobbe, 14, 1-2) Ed
i memorabili versi dell’Edipo re di Sofocle sentenziano:
«Ah, generazione dei mortali, / la vostra vita e il nulla / in pari conto io
tengo! / Quale, quale uomo / attinge felicità più salda / di un’illusione che
balugina / e rapida declina? / Se il tuo destino, o sventurato Edipo / a
paradigma prendo, / nessun mortale dirò felice.» (Sofocle,
1993: vv. 1186-95)
È dunque possibile, in nome di una tale ‘esperienza del dolore’ che
tutti gli uomini accomuna ed affratella, immaginare
una comunità che tenda al bene di tutti? Una morale che tenga legati gli uomini
da puri vincoli d’amore?
È questo, come è noto, uno dei temi de La Ginestra o il fiore del deserto. Non
ho qui lo spazio per svolgere un’analisi puntuale del testo leopardiano; mi limiterò, di seguito, ad indicare gli snodi essenziali
della riflessione etica in esso contenuta. Un primo tratto da mettere in rilievo mi pare sia costituito dalla estraneità e
dalla irriducibilità dell’approccio leopardiano alle diverse forme di
mistificazione ideologica dell’etico caratterizzanti la sua (e non solo la sua)
contemporaneità. L’insistenza con la quale viene
declinato il tema della veridicità, riconoscibile nella ‘nobil natura’ che ‘con franca
lingua, / nulla al ver detraendo, / confessa il mal che ci fu dato in sorte’
(vv. 111-117); il riferimento al ‘verace
saper’ che, liberando l’umanità dalle ‘superbe
fole’ e dagli ‘errori’ (‘la fondata probità del volgo’ che ‘così star suole in piede / quale star può
quel c’ha in error la sede’) su cui si fondano l’etico e il politico (‘giustizia e pietade’), si pone, esso
solo, come capace di garantire una convivenza sociale ispirata al perseguimento
del bene comune (‘l’onesto e il retto conversar
cittadino’) [vv. 151-57]; costituiscono altrettante conferme dell’atteggiamento
complessivamente anti-ideologico della meditazione leopardiana. E infatti un’etica (e una politica) effettuali non possono che
trovar radice in quel ‘vero amore’ capace
di confederare ‘l’umana compagnia’,
proprio e solo in forza del suo essere ‘vero’.
Il che equivale a dire che, per Leopardi, «non il riferimento a un inesistente
impulso spirituale o a una legge morale assoluta, ma solo una conoscenza
disincantata e antiidealistica della natura umana e del suo reale movente, e
cioè del desiderio del piacere e delle facoltà e delle contraddizioni che da
esso si generano, può consentire una comprensione
effettivamente fondata dell’ordine morale.» (Bova, 2001: 117). A questo punto
il cerchio del ragionamento sin qui condotto si chiude. L’amore universale, l’amore per il prossimo, se pensato come eccedente l’amor
proprio (che costituisce l’essenza di ogni essere vivente) si rivela essere una
‘fola’, un mero inganno sul quale non
è possibile costruire eticità. «L'uomo non
si potrà mai (come nessun vivente) spogliare dell'amor di se stesso, nè questo
dell'odio verso altrui..» (Zib. 890) Non si dà,
insomma, eticità possibile se non sul fondamento di quell’amor proprio che pure
pare aver prodotto l’egoismo universale. L’amore universale, ribadisce
Leopardi, è un sogno, se pensato in alternativa o in opposizione all’amore che
necessariamente l’essere vivente prova per sé. Ma allora come può costituirsi
quel ‘vero amore’
(vero appunto perché indivisibile dall’amor proprio) capace di render possibile
l’istituzione di una comunità in cui gli individui perseguano, oltre e insieme
al proprio, il bene comune?
Ora non potendo il vivente senza cessar di vivere, spogliarsi nè
dell'amor proprio, nè dell'odio verso altrui, resta che queste passioni
prendano un aspetto, quanto si può migliore; resta che l'amor proprio dilati
quanto più può il suo oggetto […].La virtù non è altro
in somma, che l'applicazione e ordinazione dell'amor proprio (solo mobile possibile
delle azioni e desideri dell'uomo e del vivente) al bene altrui, considerato
quanto più si possa come altrui, perché in ultima analisi, l'uomo non lo cerca
o desidera, nè lo può cercare o desiderare se non come bene proprio. (Zib. 890-93)
Il ‘vero amore’ cantato nella Ginestra consegue, dunque, da una
dilatazione dell’amor proprio, da una sorta di sua estroversione. E questa
estroversione è, a sua volta, resa possibile dalla individuazione
di un legame che accomuna i singoli tanto da convertire il bene comune in bene
proprio e viceversa. Il fondamento del legame comunitario è cioè individuato in
quel ‘comun fato’, in quella condivisa finitezza e
fragilità (‘il basso stato e frale’)
che destina l’uomo (ogni uomo) ad una ‘guerra
comune’ contro ‘il brutto poter che
ascoso a comun danno impera’. Poco importa che questa inesausta e infinita
guerra debba, in ultima istanza, concludersi con la
sconfitta dell’essere umano, troppo fragile, nella sua costitutiva finitezza,
per potersi opporre a colei che, ‘madre
di parto e di voler matrigna’ è, essa sì, ‘veramente rea’. Quel che importa è che Leopardi ci abbia lasciato,
come suo testamento spirituale, come ultimo atto di un dramma umano e
intellettuale altamente esemplare, un messaggio etico di straordinaria
efficacia, coerenza e misura. Questo messaggio trova la sua riuscitissima
trascrizione simbolica nella figura della ‘lenta
ginestra’ che, a dispetto della sua fragilità, oppone, alla sovrastante
forza del ‘monte sterminator Vesevo’, la diuturna,
paziente resistenza di chi, ‘fiore
gentile’, manda al cielo ‘un profumo
che il deserto consola’.
Bibliografia
Bova, A.C., Illaudabil maraviglia. La
contraddizione della natura nel pensiero di Leopardi. Liguori,
Napoli, 2001, (1° ed. 1992).
Dostoevskij, D., Delitto e castigo, Garzanti, Milano,
1981.
Leopardi, G., Operette morali, Newton Compton, Roma,
2000.
Leopardi,
G., Tutte le opere, Vol I, Firenze,
Sansoni, 1989 (1° ed. 1969).
Sofocle, Edipo re, Feltrinelli, Milano, 1993 (1°
ed. 1991).
Spinoza, B., Etica,
Boringhieri, Torino, 1985 (1° ed. 1959).